Quando si parla di montagna

27 Luglio 2020

Quando si parla di montagna, si finisce sempre per cadere in alcuni equivoci. Così, per sperare in un futuro differente dal presente e dal passato più recente – un futuro che metta davvero il territorio e la sua tutela in primo piano, soprattutto se si pensa alle località più frequentate delle Alpi – occorrerebbe prima di tutto chiarire questi benedetti equivoci.

Innanzitutto, nel dibattito in essere da anni sullo sviluppo esagerato di alcune zone alpine – cementificazione, allargamento di mulattiere, accessibilità dell’alta quota a chiunque, deturpamento del paesaggio, progettazione di nuovi impianti di risalita, trasformazione delle vallate in parchi divertimento – si tende sempre a fraintendere le istanze di quella parte di popolazione che pretenderebbe di fermare il cosiddetto “progresso”.
Volete tornare a cent’anni fa. Alla povertà e all’isolamento!” è l’accusa superficiale che viene mossa verso costoro da parte di chi, al contrario, crede che l’unica politica da perseguire sia quella degli incessanti investimenti per trasformare i paesi di montagna in cittadine di pianura identiche a quelle di ogni altra parte del mondo. Una politica portata avanti da decenni da amministratori dalla vista a corto raggio, dato che troppe valli sono state irrimediabilmente abbruttite in nome di un business a breve termine, spesso a beneficio di pochi eletti.
Ma chi chiede di interrompere lo scempio delle Alpi, non ha certo lo scopo di tornare alle fatiche di inizio Novecento. Semmai vorrebbe recuperare i valori migliori dei montanari e delle comunità rurali del passato per adattarli all’epoca in cui tutti viviamo, mettendo appunto al primo posto la difesa del territorio e non la sua sottomissione – purtroppo senza limiti – al turismo di massa.
Questo non significa essere “vecchi” o rinnegare il benessere raggiunto – altra accusa da parte di chi sguazza nell’era del consumismo. Significa invece essere disinteressati al solo affarismo, lungimiranti e di buon senso, protettivi verso la terra, convinti della necessità di fare turismo con sobrietà e, infine, avere una visione della montagna basata sulle virtù della modernità e non sui suoi troppi vizi.

Un secondo equivoco è poi relativo alla sempre maggiore facilità di accesso all’alta quota. La politica comune sulle Alpi sembra essere ancora quella di allargare i sentieri, appiattirli, liberarli da rocce e radici, renderli comodi, crearne di nuovi in sostituzione di altri, utilizzare denaro a fondo perduto per avere nuove tracce e poi abbandonarle a se stesse e – attuale e pessima tendenza – permettere alle automobili di percorrere le carrozzabili e raggiungere a pagamento l’ultimo spiazzo utile a parcheggiare prima di un ristoro o un rifugio.
In poche parole, un’umiliazione per chi ha sul serio a cuore la protezione della montagna, una contraddizione in termini visto che si parla molto di “turismo lento” – o formule simili, spesso prive di vera sostanza e coerenza – e un’assurdità soprattutto perché, sempre in riferimento alle località più in voga, la maggioranza delle persone che le frequentano non è interessata a faticare, non ha voglia di arrivare in quota con la sola forza delle gambe, non intende rispettare la natura, non ha intenzione di affidarsi al proprio spirito di adattamento, non è capace di accettare la montagna per quella che è.
Infatti, non è un caso se una percentuale altissima di turisti preferisce restare sul fondovalle senza allontanarsi dalla comfort zone, in modo da trovare gli stessi negozi, ristoranti, strade, abitudini e certezze che ha sotto casa. Così, i luoghi più frequentati di una valle alpina sono quelli distanti al massimo quattro o cinque chilometri dal paese, raggiungibili senza sudare troppo e oggi diventati una comoda estensione del paese stesso.
È perciò lampante che i turisti non cercano la “vera” montagna, perché non sono interessati ad “andare in montagna”. Quello che vogliono è una sorta di città con le montagne attorno, e purtroppo è proprio ciò che gli amministratori locali e gli enti del turismo si ostinano a offrire senza rendersi conto di continuare a rovinare l’ambiente, vera ricchezza di ogni località alpina.
Dunque, sembrerebbe inutile e controproducente rendere più agevoli i sentieri e le carrozzabili, poiché gli escursionisti autentici vorrebbero invece trovare la natura intatta e se proprio capita loro di slogarsi una caviglia su una roccia sporgente, lo accettano senza problemi, senz’altro più che dover fare strada a un taxi che porta le persone a mangiare in rifugio o in malga.

Ancora, che senso ha avuto nelle piccole e nelle più grandi comunità di montagna seguire il modello industriale per l’agricoltura e l’allevamento? Un modello ingannevole che tra l’altro si è esteso all’artigianato, all’ospitalità e al commercio?
Anche in questo caso si è preferito dare tutto in pasto alla globalizzazione, monetizzando il più possibile invece che proteggere le tradizioni millenarie, le realtà familiari, la vera qualità delle produzioni tipiche e del lavoro, l’offerta di qualcosa di unico e non codificato.
Ma la cosa davvero grave, purtroppo, è che anche oggi si continua a seguire questo modello – sempre per una questione di mero denaro e dopo aver compreso appieno quanto sia fallace il sistema – come se per un allevatore o un agricoltore di una valle alpina avesse senso far concorrenza alla pianura padana.
Un chiaro esempio per tutti – giusto per andare nel pratico e restando nella nostra provincia, quella di Sondrio – è la contrapposizione decennale tra la produzione del formaggio Storico Ribelle (il bitto tradizionale della val Gerola, presidio Slow Food) e il bitto Dop (un formaggio pensato a tavolino dal Consorzio Tutela Valtellina Casera e Bitto e che ha poco a che fare con il precedente, l’originale).
Ecco, in parole povere ciò che succede in val Gerola dovrebbe essere il modello da seguire in montagna – proprio come succede in altre, poche zone – non solo per l’allevamento, l’agricoltura e i prodotti tipici, ma anche per altri settori della vita produttiva ed economica. Un modello che metta al centro di tutto la persona e non il profitto, la comunità e non la globalità, la ruralità e non l’industria, la difesa della storia locale e non il suo disconoscimento. Dunque, un modello capace di difendere davvero le tradizioni e le tipicità, siano esse agricole, enogastronomiche, artigianali o legate al piccolo commercio e all’ospitalità familiare.
In definitiva, occorrerebbe tornare a camminare su un sentiero naturale e non su un sentiero artificiale, così da pensare finalmente alla protezione dei luoghi e degli abitanti che vivono la montagna tutto l’anno, non solo a chi la frequenta nei giorni festivi o durante la vacanza; e, infine, sarebbe fondamentale battersi contro l’omologazione dell’offerta turistica e soprattutto contro tutte quelle scelte politiche ed economiche che modificano in peggio – e l’hanno già fatto per sempre – le montagne.

(La fotografia che accompagna il post è di Enzo Bevilacqua ed è tratta dalla pagina Facebook di Livigno is magic. L’immagine immortala una parte della valle di Livigno, da un ventennio in continua espansione edilizia)