Folla e follia in montagna

22 Agosto 2020

Li chiamano “merenderos” e prendono d’assalto i monti nei weekend, nei giorni festivi o durante la vacanza.
Ai merenderos non interessa scoprire la vera essenza della montagna, fatta di contatto con la natura, silenzio, isolamento, intimità, fatica liberatoria, semplicità, rispetto del territorio e tradizioni millenarie. Ai merenderos interessa soltanto immortalare il paesaggio con un selfie, mettere piede su un passo alpino e telefonare all’amico per renderlo partecipe dell’impresa, salire in quota senza bagnare le ascelle o affaticare i polpacci (dunque pagando l’impianto di risalita, il taxi o la bici elettrica), arrivare in poco tempo a quel rifugio-ristoro-malga più vicino e facilmente accessibile, ormai trasformato in un ristorante ordinario.
Quasi sempre, i merenderos non sono preparati a ciò che li aspetta in montagna: nella migliore delle ipotesi non hanno spirito di adattamento, senso del limite o una minima preparazione fisica e mentale; nella peggiore delle ipotesi non hanno cognizione di causa e capacità di affrontare gli imprevisti, non sanno leggere una cartina topografica e non hanno idea delle distanze, dei dislivelli o delle pendenze di un sentiero, perciò avanzano verso la meta seguendo la fila disordinata delle altre centinaia di merenderos che li precedono.
È perciò ovvio che questo modo di affrontare la montagna aumenta il rischio di incidenti e di conseguenza moltiplica gli interventi del soccorso alpino (come successo a Livigno negli ultimi due mesi). Tuttavia, ai merenderos importa poco: a loro, per stare al sicuro, basta avere un cellulare in mano con cui navigare nella miglior applicazione di trekking, e in caso di necessità chiamare il numero 112.

Un contenitore di folla e follia: ecco che cosa è diventata la montagna nell’estate post-covid, la stagione del “diventeremo migliori”.
È proprio questo il tema degli articoli indignati – firmati da scrittori, giornalisti, alpinisti, opinionisti e semplici montanari – che si possono leggere ovunque in questi giorni. Riflessioni e preoccupazioni che riguardano i merenderos e il loro assalto incontrollato alle montagne italiane, di cui Livigno è capofila in compagnia delle altre località in voga di Lombardia, Dolomiti, Trentino, Alto Adige, Piemonte e Valle d’Aosta.
E così, mentre la politica locale e gli enti del turismo (imboccati dagli imprenditori del settore con i maggiori interessi economici) continuano a progettare impianti di risalita e collegamenti tra comprensori, a creare bacini per l’innevamento artificiale, a scavare sentieri, allargare mulattiere e asfaltare carrozzabili, a concedere deroghe per l’urbanizzazione di fondovalle, mezzacosta e alta quota – insistendo in scelte di cui conoscono benissimo le pessime ripercussioni – forse l’unica soluzione per salvare la montagna è quella che auspicano gli autori degli articoli che ho letto: iniziare presto a vietare l’accesso in quota alle automobili, a imporre alle persone il numero chiuso su sentieri e impianti di risalita, a smettere di cementificare, produrre neve artificiale e destinare intere valli a divertimenti, snow park e percorsi downhill, a porre fine al marketing emozionale che spinge chiunque a salire in cima a una montagna, sia essa a 1500 o 3000 metri; più di tutto, a trovare finalmente il coraggio di programmare il futuro con scelte senz’altro impopolari ma virtuose, e difendere le terre alte prima che si trasformino definitivamente, senza via di scampo, in un banale parco giochi a uso e consumo dei merenderos.

(La fotografia che accompagna il post è tratta da Il Dolomiti, sito di informazione di Trento. Scene molto simili a queste si sono registrate anche nelle valli più frequentate di Livigno e della provincia di Sondrio, così come in tutte le località delle Alpi italiane in cui il turismo di massa è imperante)