Diario dalla Valmalenco

16 Luglio 2020

Questo che segue è il mio personale resoconto – il diario – del campus esperienziale di tre giorni in Valmalenco a inizio luglio, organizzato dal collettivo Vendul il cui motto è: “L’aula migliore è fuori”.

Buona lettura: impiegherete circa 15 minuti.

 

Giovedì 2 luglio 2020
Mi tocca rivoluzionare la disposizione dell’equipaggiamento. I capi pesanti – intimo termico, calzamaglia, pile invernale, giacca in piuma e berretta – occupano lo spazio dello zaino che avrei voluto dedicare al sacco a pelo. Devo ritrovare il posto giusto per ogni cosa e risistemare come si deve i chilogrammi che porterò sulle spalle.
Fuori è buio, ma dalla finestra della camera da letto riesco a vedere la pioggia scendere fitta. Anche domani pioverà. Non so bene quanto – nemmeno lo voglio sapere, il meteo non mi preoccupa – ma di sicuro pioverà.
Aggancio il materassino autogonfiante alle cinghie esterne presenti nella parte bassa dello zaino, controllo un’ultima volta il foglio con l’elenco degli oggetti da avere con me e infine chiudo il cappuccio e la tasca frontale. Sposto lo zaino in soggiorno e mio figlio Davide, affascinato e sorpreso dalla sua grandezza, mi corre incontro per provare a metterselo sulle spalle. Ovviamente non ci riesce, non lo muove nemmeno di pochi centimetri. Rischia di farsi male, però non gli nego la soddisfazione: chiunque deve riuscire a portare qualcosa di grande sulle spalle, che si tratti di uno zaino, una colpa, una gioia, un amore o un dolore. Lo aiuto. Con il braccio teso spingo una buona parte del peso verso l’alto e lui, a fatica, si alza in piedi, felice di avercela fatta nonostante la lotta impari.
Mi sa che io camminerei poco con questo coso addosso” dice prima di tornare al disegno che stava colorando e a giocare con Carlotta, la sorella.
È tutto pronto. Anche io sono pronto. Fra un paio d’ore andrò a dormire e mi alzerò all’alba per guidare da Livigno a Chiesa in Valmalenco. E dopo aver parcheggiato l’automobile, per tre giorni mi muoverò da un luogo all’altro con la sola forza delle gambe e della pazienza, gli unici veri amici di un camminatore insieme al panorama e ai compagni di viaggio.

 

Venerdì 3 luglio 2020
Riempio la borraccia con acqua fredda di rubinetto e la infilo nella tasca laterale dello zaino. Controllo ancora di avere in tasca le chiavi dell’auto e saluto mia moglie Luana con un bacio, ribadendo che terrò acceso il telefono cellulare soltanto il tempo necessario per inviarle un messaggio e scattare qualche fotografia.
Mi avvio. Guido senza andare veloce – sono in anticipo di un quarto d’ora sulla tabella di marcia – concentrandomi sulla strada e immaginando le montagne che mi aspettano, diverse da quelle che sono abituato a frequentare. E, come previsto, in due ore arrivo a Chiesa, sul luogo dell’appuntamento.
Dopo il caffè di rito iniziamo la nostra piccola avventura con un gioco allegro per sciogliere l’imbarazzo, stemperare un po’ di tensione e, soprattutto, memorizzare i nomi dei componenti della spedizione che si aggirerà tra i sentieri della Valmalenco. In totale siamo in nove: due accompagnatori (Michele e Sandro) e sette escursionisti (Rossana, Gianni, Vincenzo, Paolo, Lorenzo, Nicola e io).
Il trekking si chiama Pensare coma una montagna – lo spunto viene dall’omonimo libro di Aldo Leopold, filosofo e ambientalista vissuto negli Stati Uniti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento – e ha lo scopo di farci camminare in luoghi ancora integri dell’alta montagna, in autosufficienza e autonomia, senza tappe prefissate, organizzando i bivacchi all’aperto tra pascoli e ruscelli, laghetti in quota o alpeggi abbandonati.
Non ho mai dormito sotto le stelle. Credo sia stato questo il motivo principale che mi ha spinto a iscrivermi al trekking, oltre alla voglia di poter camminare di nuovo per più di un giorno e alla nostalgia per il mio viaggio a piedi in Valtellina, finito ormai più di un anno fa.
Da bambino e da ragazzino ho dormito in tenda, questo sì, poi da adulto in alpeggio o in rifugio. Ma all’aperto, senza un muro a isolare il corpo dall’aria fresca e senza un tetto a oscurare il cielo agli occhi, non l’ho mai fatto.
Ci raduniamo attorno a un tavolo del parco, di quelli che i turisti usano per fare pic-nic, e insieme stiliamo la lista della spesa. Ci servono i viveri per due colazioni, due pranzi e due cene. Pane – tantissimo pane – e poi marmellata, nutella, biscotti, bustine di tè, zucchero, salame, bresaola, formaggio, ravioli, minestra in busta e bisciola, tutte cose che andranno divise e sistemate nel poco spazio rimasto nello zaino di ognuno, insieme a fornelli, bombolette di gas, corde e teli vari.
Più tardi, nel vedere la spesa e il materiale in dotazione al centro del giardino di casa di Michele – la guida alpina del collettivo Vendul che ha ideato questo trekking – siamo tutti rassegnati alla fatica. Ma è una rassegnazione positiva, allegra, perché ormai siamo in gioco e niente o nessuno potrà scalfire la nostra voglia di giocare. È lampante che la curiosità verso ciò che scopriremo di noi stessi e delle montagne intorno è più forte di qualunque pensiero negativo. In fondo, essere maldisposti non serve a nulla, se non – nel caso di un cammino – ad aumentare la percezione della fatica e, di conseguenza, la sofferenza fisica e mentale.
Quando iniziamo a camminare, seguendo il passo tranquillo imposto da Michele, è subito salita e fatica. È passato da poco mezzogiorno e ci lasciamo alle spalle le frazioni che compongono il nucleo di Chiesa in Valmalenco, trovandoci presto su una carrozzabile con i suoi tanti tornanti. Ci fermiamo un momento ad ascoltare i rumori che ci circondano – riconosco due o tre canti di uccelli, lo scorrere di un torrente, il battito del mio cuore – poi deviamo su un sentiero stretto nel bosco.
Siamo partiti dai 1000 metri di quota di Chiesa e a metà pomeriggio arriveremo ai 1600 metri di Pramezz, un poco più su dell’Alpe Pirlo, dove decideremo se allestire o meno il nostro bivacco.
Come previsto, il cielo si copre di nuvole grigie e presto inizia a piovere. Prima solo leggermente, come certi temporali passeggeri, poi più forte. Indossiamo la mantella che ci protegge dall’acqua e continuiamo a camminare, ma quando arriviamo a una baita in sasso abbandonata, decidiamo di fermarci e aspettare che la pioggia diminuisca. Qualcuno estrae dallo zaino un telo impermeabile e lo issiamo sopra le nostre teste, tenendolo fermo con le punte dei bastoncini da trekking infilate negli occhielli del telo stesso. Per un quarto d’ora rimaniamo fermi qui sotto, riuniti in cerchio come i pinguini durante una bufera, chiacchierando e scrutando il cielo per capire se, tra le nuvole, il sole troverà la forza di farsi largo.
Appena l’intensità della pioggia diminuisce, riprendiamo il cammino e arriviamo a un punto panoramico. Il sole ce l’ha fatta a insinuarsi nel grigio ed è tornato il caldo. Riposiamo e mangiamo ai margini di un dirupo, in silenzio scrutiamo dall’alto i paesi di Chiesa, Caspoggio, Lanzada e, là in fondo, ammiriamo le cime che ci dividono dalla Svizzera. E mentre affondiamo i denti nei panini imbottiti con salame e formaggio, diciamo qualcosa di noi per iniziare a conoscerci un po’ e scambiamo le prime impressioni sull’esperienza, anche se è troppo presto per capire, per riassumere, per razionalizzare le emozioni.
Di nuovo in viaggio incrociamo un’antica cava di pietra ollare. Ci infilo la testa e mi lascio travolgere dal buio e dal fresco della grotta, testimone di vite passate a battere il martello sulla roccia, a ingoiare la polvere, a portare a casa i soldi per vivere una vita dignitosa. Più avanti superiamo una lunga pietraia, dove Michele ci chiede di raccogliere una pietra ollare ciascuno: “Più meno grande così” dice, e unisce le mani a formare una pagnotta.
Ne scelgo una con cura – piatta, lucida e severa come il luogo comune dipinge alcuni “malenchi” di vecchia generazione – e la infilo nella tasca dei pantaloncini, curioso di sapere a cosa servirà.
Infine, dopo aver superato un paio di alpeggi ristrutturati e trasformati in baite residenziali, arriviamo a destinazione: siamo in un pianoro circondato dal bosco, appesantito qua e là da enormi sassi e solcato da un ruscello impetuoso. Decidiamo di fermarci qui per la notte e Michele ci invita a trovare il luogo più adatto per bivaccare. Esploriamo la zona e scegliamo una conca naturale lasciata da una baita in sasso di cui resistono solo poche parti di tre pareti, ideali per fissarci i teli e proteggerci dal vento.
Impieghiamo almeno un’ora ad allestire il campo e, quando finalmente è pronto, ci sentiamo gratificati. Ci accomodiamo a terra, sotto i teli, a immaginare come dormiremo, a fare merenda e a leggere ad alta voce alcuni passaggi del libro Pensare come una montagna. Ma inizia subito a piovere con insistenza e in poco tempo l’acqua cola dai teli. Nonostante sguardi di speranza, capiamo che non potremo passare la notte qui. Pioverà ancora fino a sera perciò, per evitare di restare a mollo in un misto di acqua e fango, ci affidiamo al piano di scorta: ci trasferiamo nella stalla abbandonata al dì là del torrente, che in precedenza abbiamo trovato aperta.
Una volta al suo interno ci sentiamo subito sollevati e divertiti: la stalla è il rifugio perfetto per una notte piovosa e umida. A nessuno importa davvero delle spesse ragnatele che pendono dalle travi del soffitto, dello strato di paglia ammuffita che copre il pavimento irregolare, degli escrementi secchi di capra o delle tane dei topolini di prato che si intravedono tra i sassi. Il buio della stalla nasconde ogni timore, sospende ogni titubanza. Per una notte il buio sarà un alleato, ci proteggerà e ci accompagnerà amichevolmente fino al crepuscolo; fino alla cena a base di ravioli, bisciola e vino rosso; fino al breve spettacolo teatrale di un componente del gruppo, illuminato dalle torce frontali; fino al momento di infilarci nel sacco a pelo per riposare e dormire, orgogliosi di essere privi delle comodità consuete. Soprattutto, tranquillizzati dal fatto che Sandro – l’altro accompagnatore – è arrivato sano e salvo a fondovalle, dopo aver deciso di lasciare il gruppo perché non si sentiva bene fisicamente.

 


Sabato 4 luglio 2020
Nelle intenzioni degli organizzatori, questo trekking doveva essere destinato a escursionisti predisposti alla scoperta e all’arte di arrangiarsi, con un forte spirito di adattamento. E subito si è rivelato tale fin dai primi passi, fin dalle prime decisioni da prendere in condivisione.
Il risveglio del gruppo è sereno e la luce del mattino che timidamente entra in stalla ci allarga il sorriso. Sono le sei e mezza, forse le sette, e qualcuno sta già preparando la colazione da consumare all’aria aperta sopra un enorme masso arrivato qui chissà quanto tempo fa.
Ci prendiamo giusto il tempo per bere un tè, lavarci e sistemare le cose nello zaino, e poco dopo, mantenendo sempre un passo costante, siamo di nuovo nel vivo del cammino. Scopriamo a cosa serve la pietra ollare raccolta ieri: in base a un ordine crescente di grandezza della pietra, ognuno di noi, fino all’arrivo a Chiareggio di domani pomeriggio, guiderà il gruppo per un paio d’ore, basandosi sulla mappa della Valmalenco in dotazione e sui segnali presenti sul territorio, senza troppe preoccupazioni vista la supervisione di Michele.
Oltrepassiamo una lunga pietraia temporaneamente chiusa agli altri escursionisti ma, evidentemente, non a noi – il cartello con l’indicazione del sentiero è “oscurato” da un sacchetto di plastica –, e prendiamo quota per raggiungere la bocchetta di Girosso, sotto il pizzo di Primolo e il monte Braccia.
Durante il cammino seguiamo il limite superiore del bosco, immersi in una vegetazione che via via si modifica sotto i nostri occhi. Vediamo tappeti di mirtilli e rododendri ed esplosioni di fiori colorati tra le rocce, mentre l’aria che respiriamo si fa sempre più sottile.
Prima di raggiungere la cima di giornata, ci fermiamo a pranzare accanto a una costruzione in sasso diroccata, senza tetto e ormai quasi senza pareti. Un vecchio rifugio di un’epoca lontana, quando i pastori andavano a far pascolare il bestiame a quote oggi impensabili, fermandosi per i mesi più caldi.
Stanchi, sudati, allegri e affamati tagliamo e prepariamo fette di salame, bresaola e formaggio di capra da infilare nei panini. Cibo nutriente e saporito da gustare morso dopo morso sotto il sole cocente, cullati dal ronzio delle mosche e dalle alte vette intorno a noi, alcune innevate e altre inaccessibili – almeno guardandole da lontano – molte delle quali famose in tutto il mondo.
Una volta rifocillati e riposati riprendiamo la strada e raggiungiamo in fretta la bocchetta di Girosso, concentrandoci sulla lunga discesa per arrivare al lago di Lagazzuolo, la nostra meta. Si tratta di una discesa ripida e impervia. In alcuni punti il sentiero è fatto di sassi instabili o di terra smossa, e occorre restare all’erta per evitare una scivolata o una slogatura. Niente di davvero pericoloso, basta essere attenti e cauti, rallentare, valutare bene dove fare perno sui bastoncini e in alcuni passaggi aiutarsi con le mani per mantenere l’equilibrio.
Come ci ha detto Michele, non esiste la montagna sicura e chi crede di poter garantire la sicurezza – un concetto effimero, bugiardo e fuorviante – sta mentendo o non si rende conto di non essere in grado di controllare la natura. Ed è proprio qui che sta il senso del libro
Pensare come una montagna, non una semplice celebrazione della wilderness ma un invito all’uomo moderno a considerare la natura, le sue creature e, appunto, i suoi pericoli come un qualcosa dotato di armonia e bellezza.
Dall’alto, il lago di Lagazzuolo pare disegnato da Segantini o descritto in una favola di Sepulveda e tutti, dentro di noi, sappiamo che sarà un posto bellissimo dove cenare e poi dormire. Evidentemente il lago è abbastanza profondo, così il cielo riflette il suo colore azzurro pastello lasciandoci anche intravedere, vicino a riva, i tronchi di larici caduti sott’acqua. Sono sicuro che metterò i piedi a mollo, e in effetti è quello che facciamo tutti una volta arrivati a destinazione.
Restiamo qui a lungo, a goderci il pomeriggio e il sole, a chiacchierare, a riposare e ripensare alle tante emozioni già vissute. Siamo partiti ieri mattina, ma è come se fossimo in viaggio da giorni. È questa la magia di un cammino e, quando si ha la fortuna di affrontarlo in luoghi poco frequentati, le ore si dilatano e i tanti minuti passati sui sentieri si percepiscono lentamente, come se ogni dettaglio avesse bisogno di tempo per essere metabolizzato a dovere.
Anche oggi esploriamo la zona alla ricerca del luogo migliore per bivaccare e presto lo troviamo: è in mezzo al bosco, non lontano dai ruscelli e dal torrente che alimentano il lago, con un focolare già allestito e pronto ad accogliere la legna raccolta. Siamo sicuri che non pioverà e che le stelle saranno ben visibili nel momento in cui ci infileremo nei sacchi a pelo. Niente teli sopra la testa, stanotte, nessuna barriera tra noi e il cielo. Solo qualche strato di tessuto a riscaldarci e a tenere la rugiada lontana dai vestiti.
Stiamo già pensando alla cena e a che cosa mangiare – davvero minestra? – quando Michele ci chiama “a rapporto” da lui. È arrivato il momento di quelle che, nel presentare il trekking sul sito internet del collettivo Vendul, sono state definite “pillole di arrampicata utili a gestire il superamento di tratti esposti, a governare la paura e ad accedere a tecniche semplici che possono trarci d’impaccio in determinate situazioni”.
Davanti a noi c’è un masso marroncino, alto e largo quanto basta allo scopo, ripido ma non certo verticale, con rughe, venature e fessure sparse ovunque a offrirci tanti appigli. Lo scaliamo uno alla volta, senza troppe difficoltà, forse più intimoriti dalla discesa che dalla salita. Poi scaliamo ancora, ogni volta aumentando la difficoltà e assecondando le richieste di Michele: solo con la mano destra e i piedi; solo con la mano sinistra e i piedi; con entrambe le mani ma scalzi; bendati per i primi due o tre passi.
Ci divertiamo, ci graffiamo le mani e le ginocchia, sudiamo ancora, veniamo punti dalle zanzare che vivono negli stagni a riva. Impariamo, seppur superficialmente, a sentire la roccia, ad accarezzarla, a lasciarci guidare da lei come deve aver fatto qualunque principiante che si è avvicinato all’arrampicata.
Quando torniamo all’accampamento ci cambiamo, ci laviamo e ci prepariamo per la cena. L’ombra cala sulle nostre teste e soltanto le cime delle montagne restano illuminate dal sole. Accendiamo il fuoco e i fornelletti a gas, prendiamo l’acqua al torrente e la bolliamo per cuocere la minestra. Prima però apriamo la seconda bottiglia di vino comprata a Chiesa e ci concediamo una sorta di aperitivo casereccio a base di fettine di bresaola – slinzega, la chiama Michele, anche se diversa da quella che conosco io.
Più tardi, prima di aprire il sacco a pelo e coricarmi, mi viene da ripensare alla pietra ollare che avevo con me fino al mattino, sulla quale Michele ci ha fatto incidere una parola significativa: una parola chiave del nostro personale cammino di ieri. “Futuro” ho scritto io sul sasso, pensando che dal punto di vista lavorativo vorrei un futuro diverso dal presente che vivo da anni e che, per vari motivi, non mi stimola e non mi piace più.
Mentre scende il buio, fisso speranzoso la stella sopra di me, la più grande e luminosa tra quelle nel cielo. Mi chiedo se a casa dormono già, se anche lì è già tutto avvolto dal silenzio. Poi tolgo gli occhiali da vista e non distinguo più la stella, diventata una piccola luce senza forma. E finché non mi addormento percepisco solo le leggere folate di vento che mi freddano il naso e le goccioline di brina che si formano sul bordo del sacco a pelo.

 


Domenica 5 luglio 2020
Durante la notte mi sono svegliato alcune volte cercando la posizione più comoda, ma non posso dire di aver dormito male. Non ho nemmeno patito il freddo: gli strati di indumenti caldi e il sacco a pelo hanno fatto il loro dovere. Anzi, a un certo punto, quando il buio iniziava a lasciare il posto a una luce flebile, avevo persino caldo e, prima di riaddormentarmi ancora, per un istante ho pensato di sfilarmi giacca e pantaloni.
Questa mattina dobbiamo essere più svelti a fare colazione, lavarci, prepararci e lasciare il campo, perché abbiamo una lunga salita e poi una discesa altrettanto lunga da affrontare per arrivare a Chiareggio e poi, probabilmente, prendere l’autobus per ritornare a Chiesa.
Un componente del gruppo si è sentito male durante la notte, si è alzato a vomitare e anche ora non sta bene. Dopo la colazione vomita ancora, si sente debole, ma decide comunque di continuare. Partiamo lenti, chiediamo spesso come sta e dopo un’ora di salita ripida tutto sembra essere tornato alla normalità. La fatica sistema ogni cosa: forse è questa la prima lezione di giornata.
Capiamo subito che dovremo superare pietraie estese e infinite, dove l’unico indizio per individuare la giusta direzione è il segno bianco e rosso disegnato qua e là sulle rocce. Il terreno è impervio e complicato, i bastoncini da trekking producono un suono secco sulle pietre e l’attenzione su dove poggiare i piedi deve essere sempre al massimo.
Una volta raggiunta la cima – il Bocchel del Cane a 2548 metri di quota, dopo la partenza dai 1900 metri del lago di Lagazzuolo – avremo da attraversare anche alcuni nevai in piano. Ma prima di proseguire ci fermiamo, indossiamo un maglioncino per contrastare il vento e Michele ne approfitta per riunirci. Con questa, le nostre salite sono terminate. Ora sarà solo discesa, in avvicinamento al lago Pirola sotto il Torrione Porro e poi giù verso il rifugio Porro, non lontano dal più famoso rifugio Ventina.
Al mio via urlate a squarciagola la parola che sentite nascere dentro di voi e che rappresenta al meglio la mattinata” dice Michele.
Urliamo insieme – questa volta la mia parola è “Serenità!” – e ciò che di indecifrabile esce dalle nostre gole corre lontano fino a disperdersi tra le rocce. Più in là, a sinistra, il monte Disgrazia – così come gli altri giganti delle Alpi Retiche che dominano il paesaggio – resta indifferente alle urla e alle risate. E i due alpinisti che lo stanno scalando, due puntini minuscoli che si muovono lenti e con circospezione, sembrano essere su un pianeta separato da quello su cui ci muoviamo noi.
Ora ci godiamo una pausa, riposiamo i piedi, sediamo su massi piatti mentre mangiamo una mela, beviamo acqua fresca e ripensiamo alle spiegazioni di Michele sulla formazione dei ghiacciai e delle valli che abbiamo oltrepassato. Purtroppo, iniziamo già a fiutare la fine di questa avventura selvaggia, a intuire il ritorno in luoghi dove regnano la confusione e il rumore, dopo tre giorni vissuti in una pace assoluta priva della fastidiosa – almeno per me – presenza delle masse.
Michele, prima di appartarsi a disegnare, ci invita a costruire un ometto di pietra, ognuno il suo, dandogli un nome. Abbiamo circa mezz’ora e l’ometto sarà un altro simbolo del nostro trekking e, in generale, della vita in natura: un segno in equilibrio precario in un mondo minerale che riteniamo inanimato, una costruzione instabile che per il vento, la pioggia o altri fattori crollerà presto senza lasciare traccia.
Il risultato sono piccoli capolavori – senza dubbio precari e instabili – di pietre piatte, arrotondate, appuntite, ruvide, lisce, piccole e grandi. Ne nasce una sorta di mostra temporanea in cui ogni “artista-camminatore” presenta a Michele e agli altri componenti del gruppo il titolo e il senso dell’opera. Siamo compiaciuti, appagati, perfino orgogliosi di ciò che siamo riusciti a creare in poco tempo.
Più tardi abbandoniamo le opere d’arte lasciandole in custodia alla montagna. È arrivato il mio turno: tocca a me guidare il gruppo e lo faccio fino a metà della discesa in valle Ventina. Fino a quando, in un bosco diradato, troviamo il famoso larice millenario che affonda le radici nella pietra.
Ci fermiamo davanti al larice e Michele ci dà qualche notizia di questo e delle altre decine di alberi centenari, alcuni ancora in vita e altri morti, che vivono da secoli in valle. Molto meno romantici e impressionanti, sul sentiero incrociamo anche i primi turisti della domenica, quasi tutti camminatori occasionali che vogliono notizie sulla distanza che li separa dal lago Pirola, sulla difficoltà a raggiungerlo e – incredibile! – che ci chiedono se secondo noi vale la pena arrivarci.
Una volta giunti a fondovalle, nonostante la folla che circonda il rifugio Porro riusciamo ugualmente a isolarci e, di buonumore, mangiamo gli ultimi viveri rimasti negli zaini, accompagnati da una birra fresca che bramavamo fin da quando, trecento metri più su, ci siamo resi conti di essere vicini alla civiltà.
Un’ora dopo riprendiamo a camminare, sciolti e agili, felici e rinvigoriti dai tre giorni di escursioni malgrado l’imminente insinuarsi nelle menti dei pensieri quotidiani. Siamo sulla carrozzabile che ci porta dritti a Chiareggio e, prima di superare il ponte sul torrente Mallero e arrivare nella frazione, Michele ci riunisce in un prato, seduti in cerchio, dove riassumiamo l’esperienza vissuta e il significato che ha avuto e che avrà per ognuno di noi.
Dopo il ponte sarà finita” dice Michele. “Questi sono gli ultimi istanti del nostro trekking selvaggio. Credo che avete imparato davvero cosa significa pensare come una montagna.”
Il resto della giornata, dal tardo pomeriggio a Chiareggio all’arrivo al parcheggio di Chiesa e poi al rientro a Livigno, fa parte dell’ordinarietà delle cose: un ghiacciolo in attesa dell’autobus; la mascherina da indossare; il volante bollente della mia automobile; il traffico sulla statale 38 della Valtellina; l’elenco degli impegni del lunedì e della settimana.
Il tutto mentre il sudore sulla pelle, le gambe affaticate, le spalle indolenzite e i graffi sulle mani mi fanno pensare che, metaforicamente ma non solo, l’essenza della vita sta nel camminare con umiltà nella complessità di un ambiente naturale e non nello sfrecciare senza limiti nel presunto comfort di una società artificiale e contraffatta.

 


(La foto che accompagna il post è mia e l’ho scattata durante il cammino; la foto e i disegni nel testo sono invece di Michele Comi e sono tratti dal sito di Vend
ul)