“Voglio vedere cosa ci porta il mare”

2 Luglio 2020

Una storia ispirata a ricordi della mia infanzia e della mia gioventù, intima e per me densa di emozioni. Una storia di mare, di campagna, di famiglia e di ‘ndrangheta ambientata in Calabria, in un’estate di inizio anni Novanta.

Era da tempo che non riprendevo in mano questo racconto e, rileggendolo, devo dire che mi piace ancora. Sì, mi piace proprio. Sono orgoglioso di come è venuto, dato che l’ho scritto circa venti anni fa, quando avevo appena iniziato a dedicarmi seriamente alla narrativa, senza sapere bene se ne sarei stato all’altezza e quali risultati avrei ottenuto.

La storia Voglio vedere cosa ci porta il mare è stata selezionata tra i vincitori della quarta edizione di un concorso letterario per esordienti organizzato dall’editore Terre di Mezzo, tra le oltre 250 arrivate in redazione e giudicate, tra gli altri, da editor di Minimum Fax e Feltrinelli e dalla scrittrice Simona Vinci.
In seguito, nel 2005, il racconto è stato pubblicato nella raccolta
Sirene. Le voci del mare, edita appunto da Terre di Mezzo, insieme agli altri racconti premiati, a una lunga intervista ad Andrea Camilleri – niente di meno! – e a un inedito dello scrittore Maurizio Maggiani.

Buona lettura! Impiegherai circa 10 minuti.

VOGLIO VEDERE COSA CI PORTA IL MARE
Siamo arrivati da qualche ora, in tempo per la cena. Sono stanco. Anzi, stanchissimo. Da Nord a Sud, un viaggio in verticale che fa andare il sangue alla testa. Che fa ricordare quanto è lunga l’Italia. Che scioglie la neve e la trasforma in acqua salata.
Mio cugino Alois dorme con il succo dell’anguria appiccicato attorno alla bocca, si è allungato sul tavolo e non gli importa dell’educazione. Le sue braccia schiacciano briciole di pane e stringono il piatto. I miei nonni non riescono a ricordare il suo nome, ogni volta mi chiedono come si chiama. È la prima volta che Alois scende al Sud. Le parole in dialetto che si ammucchiano fitte, piene di suoni, non lo disturbano. Tanto meno il ronzio delle mosche che si carbonizzano nel neon blu. Anch’io voglio dormire, ma devo rispondere a tutto quello che mi chiedono i parenti; sono due anni che non mi vedono. Due anni di domande.
Ti stai facendo uomo, ha detto mia nonna appena sono sceso dall’auto. Le ho risposto che da qualche mese mi faccio la barba. Solo attorno al mento, ma questo non l’ho detto. E il mio fisico è ancora quello di un ragazzino.
Il vento è caldo e sono a torso nudo. È buio. C’è solo una lampadina debole e impolverata a fare un poco di luce. Nessuno pensa sia arrivato il momento di alzarsi da tavola.
I miei cugini del Sud sono sempre più grassi: sono il doppio di me. Il più piccolo, dovrebbe avere sei anni, pesa quanto me. Penso che il Sud ingrassa. Il caldo, il mare, la frutta e la verdura da raccogliere a dieci passi dalla cucina, l’olio. Su al Nord il freddo chiude lo stomaco, il pranzo e la cena durano dieci minuti.
L’unico cane che gira libero mi annusa. Credo si ricordi di me, ma non sembra esserne sicuro. Forse sente l’odore del Nord e non gli piace. Va da mio padre e si fa accarezzare: gli appoggia il muso sopra la gamba, si vede che lui ha ancora sulla pelle l’aroma del Sud. Provo ad annusare anche io gli odori: terra arida nei capelli del nonno, acqua dolce sulle mani della nonna, peperoncino sulle labbra dello zio. Non riesco a sentire l’odore del mare; non è lontano dalla campagna, ma non lo sento.
La ferrovia passa vicina. Un giorno mio padre ha detto che la nonna non ha mai avuto un orologio. Non lo sa nemmeno leggere. Per lei il tempo è lo stomaco del nonno che brontola. È la ferrovia. Il treno che arriva alle sei è la sua sveglia. Il treno merci che passa alle nove e mezza di sera l’accompagna a letto. Ogni volta che c’è un ritardo la nonna perde il tempo. Quando c’è uno sciopero perde un giorno.
La guardo, lei mi sorride, si alza e corre a darmi un bacio infinito. Con le mani minuscole e rugose mi stringe il viso. Dà una carezza anche a Alois e rivolta a tutti domanda ancora come si chiama. Anche il mio nome non è italiano, mi chiedo se ha faticato a impararlo.
Mia madre comincia a sparecchiare, la zia e la nonna vanno in cucina a lavare i piatti. Mia madre sembra già ingrassata. Si tocca la pancia e sbuffa verso di me: ha mangiato troppo. Dice che ha bisogno di un altro caffè.
Mio zio parla della ‘ndrangheta. Dice che si è trasferita tutta in provincia. Terreno fertile la provincia, dice. A ogni chilometro c’è un blocco stradale, è arrivato perfino l’esercito. Il nonno annuisce sofferente: quando va in città con la Vespa lo fermano all’andata e al ritorno. Prima la polizia poi l’esercito. Tutte le mattine. Lo zio dice che qualche sera fa due uomini sono entrati nel bar della piazza e ne hanno ammazzati quattro. Se ne sono andati senza correre, si sono nascosti tra le case e hanno trovato rifugio. La polizia era vicina ma non ha fatto in tempo.
Alois si è svegliato e ascolta con gli occhi sbarrati. A sentire lo zio che descrive gli omicidi scappa in camera. Uno degli uccisi era un parente di terzo grado. Io e mio padre andiamo a tranquillizzare Alois. Gli diciamo di non preoccuparsi, che noi siamo al sicuro. Che al Sud succedono spesso queste cose. Che siamo in vacanza e nessuno ci farà del male.
Alois dice che vuole tornare da sua mamma. Dice che il mare non gli piace.
Calmalo un po’, ordina mio padre prima di uscire.
Dalla finestra aperta sento la sua voce: Alois si è solo spaventato, dice, adesso lo calma. Il nonno chiede quanti anni ha. Dodici, risponde mio padre, è un ragazzino sensibile.
Dico a Alois che devo andare in bagno e che quando torno decidiamo cosa fare nelle due settimane di vacanza. In bagno accendo una sigaretta: è da ieri che non fumo. Avevo deciso di smettere per non farmi beccare dai miei. Alla fine ho comprato due pacchetti prima di partire e un altro all’autogrill. Quattro sigarette al giorno. Cinque, al massimo.
Torno in camera, mio cugino sta piangendo. Gli dico che staremo tutto il giorno in spiaggia a giocare a calcio, a prendere il sole, a pescare, e che alla sera guardiamo le partite degli Europei anche se non c’è l’Italia. Io tifo per l’Olanda, dico, perché mi piace l’arancione. Lui dice che tiene alla Danimarca perché l’hanno ripescata al posto della Jugoslavia. Dice che però non è giusto che un paese fa la guerra e un altro fa gli Europei al suo posto. Gli dico che c’è sempre un paese che fa la guerra e un altro che gioca a calcio. Non è giusto, dice Alois, ma almeno ha smesso di piangere. Dice anche che pescare non gli piace e che vuole nuotare nel mare insieme ai pesci e mangiare un sacco di gelati.
Io esco e do la buonanotte a tutti. Sono stanco, dico, stanchissimo. La nonna si asciuga le mani col grembiule e mi stringe il viso. Poi mi bacia. Mia madre, dalla cucina, urla buonanotte. Il nonno vuole farmi vedere i polpacci con le schegge di bombe della guerra, ma mio padre gli dice lascia stare. L’ultima volta che sono stato qui il nonno mi ha raccontato la guerra e intanto mi faceva toccare le schegge sotto pelle. Sentivo le urla dei feriti. Mi dicevo che tutti i nonni hanno dentro le schegge della guerra.
Alois russa. Mi infilo sotto le lenzuola e leggo un fumetto. Dopo poche pagine mi addormento. Nel sonno sento l’odore di mia madre. Appoggia il fumetto sul comodino e mi sfiora un braccio con le dita. Poi sogno il mare.

Alle nove siamo in spiaggia. Con un po’ di timore Alois mi chiede cosa vuol dire la parola ‘ndrangheta. Rispondo che non lo so.
Prendo il pallone e cominciamo a giocare. Poi facciamo un bagno, un’altra partita e un altro bagno. Tutta la mattina così.
Prima di pranzo arriva lo zio. Dice che il mare è mosso e che le onde portano lo sporco a riva. Sta mangiando un gelato confezionato. È tutta settimana che c’è vento, dice. Mi chiede se ho fatto il bagno. Rispondo che ne ho fatti tre ma che il mare è sporco. È pieno di sacchetti di plastica, alghe e pezzi di legno. Dice che è colpa del vento e delle onde. E di chi usa il golfo come discarica. Chiede a Alois se gli piace il mare e butta la carta del gelato per terra. Il vento la porta verso la strada. Alois risponde che gli piace di più la neve. Si sta togliendo dalla pianta del piede il catrame. Dice che gli fa schifo il catrame e che appiccica. Per toglierlo usa i sassolini piatti della spiaggia, gli stessi che mio padre fa rimbalzare nel mare quando è pensieroso. Ogni salto del sassolino si porta via un brutto pensiero e lo affoga.
Lo zio non smette di fissare al largo. È immobile. Il mare gli bagna le vene varicose sopra le caviglie. La schiuma gli rimane attaccata ai peli delle gambe per un istante, poi sparisce. Dice che al largo c’è qualcosa che galleggia. Qualcosa di strano.
Ci avviciniamo. Mia madre rimane stesa al sole e chiede cos’è. Lo zio punta un dito verso il mare e dice là. Mio padre mette la mano sulla fronte come gli indiani: copre gli occhi dal sole e allunga la vista. Là, dice ancora lo zio, ma solo lui riesce a vederlo. Là dove, chiede mio padre. Nessuno risponde, tanto meno lo zio. Io lo vedo, dice Alois. È là, al largo.
Proviamo a seguire il suo dito e iniziamo a vedere qualcosa. Un puntino si avvicina piano. Arriva anche mia madre, incuriosita. Appoggia una mano sulla mia spalla ma subito la lascia scivolare attorno alla vita. Mi abbraccia. Sarà sporcizia, dice, un tronco o qualcosa del genere. Siamo tutti lì, davanti al mare, ad aspettare quello che ci porterà.
Il mare è capace di portare uomini e barche e pesci, penso, e dentro la pancia ha navi affondate, tesori, creature degli abissi, bottiglie con i messaggi. Dico a voce alta che il mare nasconde sempre qualcosa e che ogni tanto lo fa riemergere e lo manda a riva. Mio padre si volta e mi guarda come a dire che non sono suo figlio, che non ci sto con la testa. Si sente il rumore dei pensieri: cercano di capire cos’è quel puntino che si avvicina.
Alois dice che è stufo di guardare il mare. Mi chiede di andare a giocare a pallone. Dice che secondo lui è un corpo ma non lo vuole vedere, ha paura. Gli dico che non ho più voglia di giocare e che voglio vedere cosa ci porta il mare. Lo zio e mio padre guardano Alois. È vero, dice lo zio, sembra un corpo.
Entriamo ancora un po’ in acqua. Le onde sbattono sulle gambe e gli schizzi arrivano fino al petto. È difficile restare in equilibrio. Mio padre cade e scoppiamo a ridere. Lui tossisce e fatica a respirare. Non riesce ad alzarsi: le braccia sprofondano nei sassolini del mare. Lo aiuto. Mia madre sorride e lo guarda come a dire che è imbranato.
Lo zio inizia a urlare: è arrabbiato, ma non capisco cosa dice. Parla in dialetto e il frastuono delle onde copre la sua voce. Capisco qualche bestemmia. Lo vedo camminare fino a che il mare gli arriva alla bocca. Noi arretriamo, un po’ per paura e un po’ per ribrezzo. Lo zio prende un bastone che gli galleggia vicino e si gira a urlare quello che vede. Sì, dice, è un corpo. Una carcassa, dice dopo un minuto. Un pesce grosso, aperto. Arriva, dice ancora, adesso lo prendo.
Lo zio allunga il bastone e trattiene la carcassa, la tira verso di sé e intanto arretra. Ha la faccia disgustata. Il mare non ci bagna più. È un cucciolo di balena, urla lo zio, senza testa e tutto aperto sulla pancia. Poi bestemmia e urla che quelli delle navi sono dei bastardi. Li pescano per sbaglio, dice, li speronano, non stanno mai attenti, li travolgono e li lasciano in mare a morire.
Il mare non può guarirli, penso, e li lascia morire.
Sono dei bastardi quelli delle navi, urla ancora lo zio. Poi spinge il cucciolo di balena a riva e lo allontana dal mare. Dico allo zio che dovrebbe lasciarlo in mare. Lui lo abbandona lì, sulla spiaggia, a qualche metro dal nostro ombrellone.
Le navi e le barche, dice mio padre rivolto allo zio, non hanno rispetto del mare.
Mia madre mi passa un panino e una lattina di coca. Io guardo la carcassa e penso che non avevo mai visto un cucciolo di balena. Che il cucciolo di balena non aveva mai visto la spiaggia. Che il mare deve proteggere le balene e tutti i pesci.

Quando il sole se ne va e saliamo in auto, appena usciti dall’autostrada ci ferma la polizia. Alois si spaventa. Dice che magari la polizia pensa che siamo della ‘ndrangheta o delle navi che uccidono i cuccioli di balena. Mio padre gli dice di stare zitto.
Scendiamo dall’auto. I poliziotti guardano nel bagagliaio e sotto i sedili e io vedo i mitra da vicino. Uno di loro dice a mio padre di andare, di passare una buona vacanza e godersi il mare. Dal vetro posteriore vedo i poliziotti sempre più piccoli.
Penso al mare: a cosa ci porterà domani.

(La foto che accompagna il post è mia e l’ho scattata nel 2019)