“Come una mongolfiera stracolma di gas”

19 Gennaio 2024

L’ambientazione del racconto che segue è quella delle nostre montagne: ci sono le valli tra Livigno e l’Engadina, c’è la diga al lago del Gallo e c’è il tunnel Munt la Schera, anche se nessuno di questi luoghi viene espressamente nominato.
E poi c’è il tema sociale attorno al quale ruota la storia: quello dell’immigrazione che, all’epoca in cui avevo scritto il racconto, era di strettissima attualità (come oggi). Era il 2009 e anche in Svizzera era in vigore l’accordo sulla libera circolazione delle persone con i Paesi dell’Unione Europea, siglato nel 2002.
Ma la mia storia è ambientata nell’inverno del 2000, quando il confine di Stato tra Italia e Svizzera era presidiato giorno e notte.

Il racconto Come una mongolfiera stracolma di gas è stato pubblicato nel novembre 2009 sul numero 17 della rivista Toilet. Racconti brevi e lunghi a seconda del bisogno, edito da 80144 edizioni.
Riguardo a questo libro-rivista, ancora oggi esistente, nell’aletta di copertina si legge: Toilet è una raccolta di racconti, frutto di alcune delle migliori energie della nuova narrativa italiana. Una “maneggevole” pubblicazione, pensata ironicamente per essere letta nella comodità del bagno. Per ciascun racconto, è indicato il tempo previsto di lettura, così da armonizzare esigenze fisiologiche e curiosità intellettuali.

Buona lettura! Impiegherete circa 10 minuti.

 

COME UNA MONGOLFIERA STRACOLMA DI GAS
Inverno 2000
Anche stamattina abbiamo preso la mia auto e come al solito ha voluto guidare lui.
Carlo non si fida di come stringo il volante: è un cinquantenne timoroso e ansioso, i baffi neri a nascondere il tremolio delle labbra e la testa rasata a mascherare la calvizie. All’hotel dove lavoriamo è Corpo Silenzioso, perché quando ride lo fa con uno sbuffo d’aria e quando si muove non fa rumore.
Carlo dice che i soprannomi facilitano i rapporti umani e rasserenano l’atmosfera sul lavoro. Io non ci credo molto. Per gli stagionali sono simpatici, invece per chi resta più a lungo diventano dispregiativi e servono solo a sottolineare i difetti.
Ho gli occhi chiusi e non sto dormendo, ma mi impongo di sognare: una notte con Raina, il ritorno all’università, i sorrisi di mia madre, il raddoppio della paga. Tutte cose che non ho.
Stai dormendo?” sento uscire dalla bocca di Carlo. “Svegliati, siamo in dogana.”
Dal gabbiotto un finanziere sorride incerto mentre Carlo abbassa il finestrino.
Stasera vengo a cena all’hotel con la mia ragazza” ci dice.
Va bene” sussurra Corpo Silenzioso.
Mi assicurate che faccio un figurone?”
Annuiamo decisi, nascondendo il disinteresse per la sua vita amorosa.
Benissimo” fa lui, poi con una mano fa segno di andare e la sbarra si alza.
Per i finanzieri siamo un’abitudine e non chiedono mai i documenti. Ogni tanto controllano l’abitacolo e il bagagliaio, giusto per non farci dimenticare dove siamo.
È vero che è la tua ultima stagione?” mi chiede Carlo.
Per un istante l’auto invade la corsia opposta, segno che la risposta potrebbe turbarlo. Incrocio il suo sguardo per il tempo che impiega un ermellino a mimetizzarsi nel bianco della neve.
Sì” rispondo.
Hai fatto abbastanza soldi?”
Non quanti me ne servirebbero. Però ho quelli per l’affitto e le tasse universitarie.”
Perché non fai ancora un paio di stagioni, allora?”
Lascio cadere la domanda. Abbasso il finestrino e anche se l’aria è gelida sporgo la testa per guardare oltre il muro che protegge dal vuoto della diga. Non vedo la fine dello strapiombo e questo mi fa stare meglio: decido di buttare nel nulla del lago ghiacciato i pensieri che mettono in pericolo la mia decisione.
Chiudi, si gela” ordina Carlo. “E poi non voglio respirare l’aria marcia del tunnel.”
Quando usciremo dalla galleria e avremo passato la seconda dogana, saremo in Svizzera.
All’hotel io sono Laureato a Metà.

I due piani dell’hotel spuntano dal bosco che costeggia un lungo rettilineo, in inverno sempre innevato perché all’ombra. L’edificio è l’unica traccia della presenza dell’uomo nell’arco di venti chilometri, in entrambe le direzioni. Immagino sia stato costruito per non disorientare chi arriva dalla città, spaventato dagli spazi dominati dalla natura.
Lavoro all’hotel da cinque anni, da quando i dottori hanno lasciato morire mia madre senza ricoverarla, pensando che fosse stressata o depressa. Invece aveva un cancro difficile da individuare, ma ben presente. E letale. Così ho lasciato l’università dopo pochi esami: dovevo aiutare mio padre con le spese del funerale e con quelle dell’avvocato per la causa di risarcimento, oltre a risparmiare per riprendere gli studi. Lavoro per pagare la morte, la giustizia, il futuro.

Verso le dieci, prima di sistemare la sala ristorante per il pranzo, preparo il caffè. Aspetto che Raina finisca le pulizie delle stanze per scambiare due chiacchiere.
Sono innamorato di Raina. Lei no. Lei è gentile, sorride, mi provoca. Mi usa, sorride ancora e mi provoca ancora. Sono il passatempo noioso di una ragazza insoddisfatta. Odio Raina. Lei no. Lei non prova sentimenti forti per me e un giorno scorderà la mia faccia: sarò lo sconosciuto di due anni fa, prima che arrivasse all’hotel dalla Romania.
La vedo uscire dall’ascensore e dirigersi verso il bancone del bar, da me. Toglie la cuffia bianca che ha in testa e scioglie i capelli, risistemandoli in una coda di cavallo che lascia la fronte e il collo scoperti. Anche nel vestito insignificante da donna delle pulizie è elegante, il portamento di una modella orgogliosa dello stilista per cui sfila.
Ciao, mio innamorato” dice lasciandosi cadere sullo sgabello. “Oggi sono stanca.”
Prende la tazzina di caffè e la porta alla bocca, poi la posa di scatto: “È bollente” fa con un gridolino. Torna seria, passa lo sguardo dai miei capelli al mento, dal colletto della camicia alla cicatrice sopra il pomo d’Adamo.
Ho un favore da chiederti” dice. “Un grosso favore” aggiunge senza vergogna.
Cerco una bottiglietta di succo alla pesca nel frigo alle mie ginocchia, bevo a canna e l’ascolto come fossi un confessore.
Voglio andare in Italia. Mi porterai tu, stasera.”
Neanche per sogno” dico fingendo di non essere sconvolto. Faccio per andarmene, deluso da una richiesta inaspettata e dolorosa.
Ti prego” scalpita. “Non voglio più stare qui. A Milano ci sono alcuni amici, starò da loro.”
Finirai male.”
Non devi preoccuparti. Mi hanno promesso un lavoro.”
Chi, altri romeni? O magari albanesi?”
Gli amici da cui vado. Hanno un ristorante, farò la cameriera.”
Non fidarti.”
Voglio vivere in città, non fra queste montagne. Voglio di più, come tutti.”
Entrare da clandestina è una follia” dico irritato.
Non finirò a battere, se è di questo che hai paura.”
Anche la decisione di Raina è definitiva, inutile discutere. Si alza dallo sgabello e cerca ancora la mia attenzione: “Mi nasconderò nel bagagliaio” bisbiglia. Poi se ne va a continuare le pulizie, forse le ultime della sua vita in Svizzera.

Il mio futuro è finire Scienze politiche e specializzarmi in Geografia. Mi è sempre piaciuto sapere l’esatta posizione di città e Stati nelle cartine. Un giorno non sarò più Laureato a Metà e potrò visitare tutti i posti che conosco.

L’hotel si chiama Edelweiss, che in tedesco significa “stella alpina”, ma per noi è Rettangolo Fascista: è austero come le camice nere e tetro come una chiesa sconsacrata. Negli anni Trenta ha ospitato gerarchi in vacanza e il padrone è un vecchio italiano prepotente e nostalgico di quell’epoca. Per me è solo il luogo che dà da campare al mio futuro.

Durante la pausa del primo pomeriggio mi isolo nella terrazza che fa da solarium, sprofondo e mi rannicchio nella sdraio come facevo da piccolo quando mia madre mi portava al mare. A quest’ora la temperatura è primaverile, riesco perfino ad abbronzarmi. Attorno a me il paesaggio è bianco, solo le cime delle montagne e gli alberi a mezza costa spezzano la monotonia dell’unico colore presente. Se ne avrà davvero la forza, non impedirò a Raina di vivere peggio.
Ciao” sento dire alle mie spalle.
Mi volto con un sussulto e la sdraio balla pericolosamente. È Ragazzo Perduto, un sudanese arrivato all’hotel a inizio inverno. Fa l’aiuto cuoco, credo si chiami Achak. Non ci ho mai parlato un granché.
Carlo mi ha raccontato la sua storia con le lacrime agli occhi e si è offeso perché non provavo alcuna emozione nell’ascoltarla. Per le tragedie non provo più né emozione né dolore, casomai curiosità. E di Achak sarei curioso di capire come abbia fatto a finire al Rettangolo Fascista, oltretutto proveniente dagli Stati Uniti.
Fra poco arrivano” dice eccitato.
Una decina di mongolfiere faranno tappa all’hotel. Vengono dall’Austria e domani ripartiranno per Zurigo. È una specie di evento itinerante organizzato da una casa automobilistica, non ricordo quale. Solo pubblicità, nient’altro.
Come sono fatte?” chiede Achak. “Non ne ho mai viste, neanche a Seattle.”
Sono grandi palloni” rispondo, “colorati e a forma di goccia.”
Bello” dice lui.
Achak ha la voce soffice come la neve di gennaio. Potrebbe avere venti o quarant’anni, non sono mai riuscito a dare un’età precisa agli africani. Ha la pelle talmente scura da fare impressione, forse è per questo che ho sempre cercato di evitarlo: ha qualcosa di alieno. O forse l’ho evitato per non dovergli dire che sono orfano di madre come lui.
Achak ha passato cinque anni in un campo profughi in Kenya e prima altri due in Etiopia. Poi, con un programma dell’ONU, è stato trasferito in America dove è rimasto per tre anni, aiutato da un’associazione e da una famiglia che gli ha fatto da sponsor. Credo che anche lui abbia sempre cercato un futuro migliore.
È il tempo giusto per viaggiare in mongolfiera, no?” chiede.
Credo di sì.”
C’è il sole e niente nuvole.” Indica il cielo e le dita vibrano come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Ci guardiamo come non abbiamo mai fatto in questi mesi e cerchiamo i segreti dietro gli occhi. I suoi, tanto neri da nascondere le pupille, sono uno schermo imperforabile.
Perché ti chiamano Ragazzo Perduto?” gli chiedo timidamente.
Così…”
Non vuole parlarne, ma devo sapere. Nemmeno Carlo l’ha spiegato, ha detto che sono cose personali e dolorose. “Ci sarà pure un motivo” insisto.
Davvero ti interessa?”
Sì” rispondo con un finto tono di offesa.
Va bene” fa lui quasi dovesse affrontare un supplizio. “Nei campi profughi dove sono stato, Ragazzo Perduto è il nome che davano ai bambini scappati dai villaggi.” Esita un istante e studia la mia reazione, poi continua: “Erano bambini rimasti orfani dopo gli attacchi ai villaggi, oppure che si nascondevano senza sapere nulla dei genitori o dei fratelli. Quando i ribelli smettevano di sparare nessuno tornava al villaggio, aveva troppa paura, e si riuniva con altri bambini incontrati nei dintorni. Poi insieme camminavano verso il campo profughi, guidati da ragazzi più grandi”. Fa una pausa e torna a guardare il cielo, come per disperdere i ricordi nell’aria: “Io sono stato uno di quei bambini”.
Senza riuscirci provo a immaginare gli attacchi dei ribelli, le uccisioni, i villaggi in fiamme, i bambini nascosti tra gli alberi, una fila di giovani profughi in cammino. Tutte cose così lontane dal nostro vivere da sembrare irreali.
Ragazzo Perduto…” sussurro senza farmi sentire. “E come mai sei venuto in Svizzera?” chiedo ancora.
Achak non mi ascolta più: “Arrivano” dice come in trance.
In lontananza vedo le mongolfiere puntare verso l’hotel e il terrazzo si riempie di voci entusiaste, di sguardi al cielo, di mani che fanno ombra agli occhi. Ci sono Raina, Carlo, lo chef e gli altri, e alcuni clienti. C’è anche il padrone, vestito con un abito impolverato che a tutti noi sembra un’uniforme fascista.
Le mongolfiere atterrano in uno spiazzo a lato della strada, con le ultime fiammate di gas caldo che si infilano nella gola dei palloni. Achak è ancora in trance: credo sia lo stesso stupore della prima volta che ha visto un aereo, una città, un uomo bianco. Lo sento chiedere informazioni sul funzionamento delle mongolfiere, ma nessuno sa rispondere con precisione.

Mentre guida, Carlo parla delle avventure raccontate dai piloti e dai loro accompagnatori durante la cena, come se non fossi stato presente. È talmente su di giri che non lo interrompo. In testa ho solo Raina: non so se è nel bagagliaio, non l’ho più vista da quando i clienti si sono spostati al bar per i caffè e le grappe. Lei stava sparecchiando e un paio di volte l’ho sorpresa a fissarmi indecisa, poi più nulla. Forse è tornata in camera sua, delusa di non aver trovato il coraggio.
Guardo verso il bagagliaio, pensando a come uno spazio buio e stretto possa essere il lasciapassare per una nuova vita. Il futuro inizia sempre dal buio.
Cosa guardi?” chiede Carlo.
Niente” rispondo mentre sento le ascelle inumidirsi.
Nel gabbiotto della dogana svizzera sono in tre, è quasi mezzanotte: nessuno esce o bada a noi, sembrano impegnati a fissare lo schermo di una tv. Solo il più giovane, riconoscendo la macchina, fa cenno di andare. Entriamo in galleria e superiamo la diga, e dopo pochi minuti siamo all’altra dogana. Vedendo avvicinarsi i fari, un finanziere si affretta a venirci incontro e alza il braccio. Quando la macchina è vicina riconosce Carlo e gli sorride. Aspetta che abbia abbassato il finestrino e poggia le mani sulla portiera, allungando la faccia all’interno dell’abitacolo. Guarda Carlo e poi me per la durata del letargo di una marmotta, infine dà un’occhiata ai sedili posteriori. È lo stesso finanziere di stamattina: “Avete fatto tardi stasera” dice.
Il ristorante era pieno” fa Carlo, quasi scusandosi. “A proposito” continua punzecchiato da un ricordo, “non dovevi venire a cena?”
Eh” risponde lui demoralizzato, “ho dovuto sostituire un collega. Cosa c’è lì dentro?” chiede indicando il borsone sui sedili posteriori.
È roba mia” dico. “Ci sono vestiti sporchi e una bottiglia di vino per mio padre. Devo aprirla?” domando per educazione.
No, no, non c’è bisogno. Andate pure.”
Diciamo entrambi un “buonanotte” denso di stanchezza e intanto la sbarra si alza.

A casa di Carlo smetto di sudare. Scendo dall’auto per mettermi al volante, gli dico che passerò come sempre a prenderlo alle nove e guido dirigendomi verso un piazzale isolato. Quando lo trovo controllo se c’è gente nei dintorni, spengo il motore, esco e cammino lentamente verso il bagagliaio. Non vorrei mai aprirlo. Domani vorrei solo preparare ancora il caffè, chiacchierare, continuare a sognare una notte con lei.
Controvoglia mi decido: apro il bagagliaio e vedo un corpo immobile, due occhi spaventati guardare nella mia direzione e sperare di non vedere altre facce. Raina tossisce quando l’aria gelida le invade i polmoni.
Allora è andata bene…” dice rianimata, poi esce dal bagagliaio. “Mi presti il cellulare?”
Pesco il telefonino dalla tasca dei jeans e glielo passo, lei cerca un foglietto nello zaino che le faceva da cuscino. La sento parlare in romeno, intuendo il significato di qualche parola simile all’italiano. Mi passa il cellulare: “Vedi un po’ dove devo andare” ordina.
Dall’altra parte c’è una voce maschile. Rauca, cattiva, veloce, che fa domande senza aspettare le risposte. “Siamo qui vicino” riesco a dire, e la voce sparisce.
Guardo Raina: è impaziente, euforica, prende lo zaino e ci avviamo. Indico la direzione, cammino piano e vorrei che non se ne andasse, invece lei ha il passo spedito e non si volta a vedere se ci sono ancora. Davanti a un negozio, un uomo scende da una berlina vecchia e scura, simile a quelle che hanno i magnaccia nei film.
Fermati” fa Raina, e mi blocca spingendo la mano sul mio petto. “Non voglio farvi incontrare, è meglio se torni alla macchina.”
Il mio cuore imbizzarrisce e non riesco a trattenere l’emozione: una lacrima esplode. Sono una mongolfiera stracolma di gas, pronta al decollo.
Ciao, mio innamorato” dice con un sorriso, “mi mancherai”. Fa leva sul mio braccio, si alza sulle punte e mi regala un bacio di gratitudine, sincero e appassionato. Il mio cuore diventa indomabile e vado via prima che Raina raggiunga l’uomo. L’ultima cosa che vedo di lei è la camminata orgogliosa, i capelli neri andare su e giù a ritmo con le spalle, la schiena inarcata a spingere il seno verso il futuro.
All’hotel, Raina era solo Raina: nessuno aveva trovato un soprannome adatto a lei.